Il buon allenatore

Questa sera, al corso allenatori, durante una parentesi informale della propria lezione, un docente ci ha domandato quali fossero per noi le caratteristiche di un buon allenatore. Le tre opzioni che sono emerse sono le seguenti:

  • Conoscenze
  • Motivatore
  • Non scendere a compromessi

Ora,  preciso subito che l’opzione che ho proposto io è la prima. E ritengo sia veramente quella più importante. Prima di tutto, a mio avviso, un allenatore deve essere competente. Deve sapere ciò che sta macinando.

Le conoscenze sono di vario tipo:

  • Tecniche
  • Tattiche
  • Fisiche
  • Psicologiche

Al primo posto pongo anzitutto le conoscenze tecnico-tattiche, che sono indispensabili, a mio avviso, per un buon allenatore. Diceva Galileo, prima la teoria e poi la pratica. Non credo che un buon allenatore possa prescindere dall’avere delle solide basi teoriche alle spalle. Non mi piace quando ai corsi mi dicono: “Meglio un allenatore che sa poche cose, ma le sa applicare tutte, piuttosto che uno che ne sa tante, ma ne sa applicare poche“. Non mi piace perché è vaga e sembra che crei alibi all’ignoranza. Dal mio punto di vista, non dovrebbero nemmeno esistere allenatori che sanno “poche cose”, dove io intendo che sia sottintesa l’espressione “in relazione al livello che allenano”. Certo, se alleno l’Under 12, non è necessario che abbia le stesse conoscenze che hanno in serie A1, ma ci sono cose da cui non posso prescindere. Che senso ha parlare di un allenatore che, allenando un Under12, sappia applicare benissimo il palleggio, ma poi non sappai neanche cosa sia un bagher?

Non so se riesco ad essere chiaro: a mio avviso non dovrebbero esistere allenatori che sanno poche cose. E’ un po’ come dire che, siccome l’ortopedico si occupa di ossa, egli non debba essere a conoscenza di come funzioni l’apparato circolatorio. Vi piacerebbe sapere che il medico che ha in mano il vostro ginocchio, non sa nemmeno la differenza tra vene e arterie? Il discorso dell’applicare i concetti è molto vero (infatti, ogni medico è specializzato in un particolare campo), ma ritengo che sia un fatto che si possa accumulare con l’ingegno, l’esperienza e la passione. Invece, la conoscenza dipende quasi esclusivamente da una forma di studio (non necessariamente sui libri), quindi non è un regalo che si ottiene “grazie al tempo”! Se vuoi svolgere un lavoro con professionalità, devi prima imparare la teoria che lo sovrasta. Assumereste mai, nella vostra officina, un meccanico che sa solo montare e smontare sportelli? Sicuramente preferireste uno con solide basi alle spalle, anche se magari non ancora del tutto pratico nell’attività vera e propria.

Così come il medico ha in mano una vita (perdonate l’analogia un po’ grottesca e inopportuna, è solo per capirsi) e il meccanico un’automobile, allo stesso modo l’allenatore ha in mano le carriere dei suoi giocatori. Non può credere di allenarli a dovere, se non ha le conoscenze per farlo.

Due parole anche sulle altre conoscenze da me citate: le conoscenze fisiche sono un problema serio, perché, allo stato attuale, gli insegnamenti offerti agli allenatori sono miseri e, ahimé, raramente si ha a disposizione un preparatore. Tuttavia, credo che, quanto meno, le basi per evitare di fare danni dovrebbero esserci. Siano esse fornite ai corsi, o dai libri, o da Internet. Sono imprescindibili. Le conoscenze psicologiche, infine, sono quelle relative alla memorizzazione dell’informazione, alla lettura dello stato d’animo del giocatore, alla conoscenza di cosa sia meglio dire e cosa sia meglio non dire in determinati momenti dell’allenamento e/o della gara.

Una precisazione sul terzo punto, il non scendere a compromessi. Non credo possa essere una qualità per un allenatore. Quanto più una caratteristica umana. Nel senso: spesso è necessario scendere a compromessi, con atleti, dirigenti e così via. Rimanegono solo due punti importanti: la coerenza e l’agire con buon senso. Ma, francamente, credo che queste due caratteristiche non siano proprie di un allenatore, quanto più di un qualsiasi individuo che debba dirigere un team di qualsiasi tipo.

Concludendo, secondo me, dalle conoscenze non si prescinde. Puoi essere un gran motivatore, un passionale che trascina i cuori della gente, ma, se non hai conoscenze, non potrai mai essere un allenatore veramente valido. Non parlo né per esperienza, né in modo autobiografico. Semplicemente, essendo io un giovanissimo allenatore ancora in fase di formazione, esprimo il concetto di ciò che io miro: io aspiro a diventare un allenatore anzitutto competente. Poi, se ci sarà anche il resto, ancora meglio.

Detto questo, non intendo dire che un allenatore che non sia un’enciclopedia non debba poter allenare. Altrimenti neanche io dovrei poterlo fare. Le dirette conseguenze di quello che dico sono così riassumibili:

  • Bisognerebbe sempre perseguire un miglioramento conoscitivo del proprio sport, senza mai pensare di essere arrivati
  • Dovendo stilare una graduatoria dei migliori allenatori, li ordinerei in base alle conoscenze

Spero possa nascere una discussione costruttiva.

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5 commenti su “Il buon allenatore”

  1. Sono fermamente convinto del fatto che un allenatore di minivolley o di settore giovanile debba avere delle buone basi sulla tecnica e debba essere soprattutto un buon insegnante; chi ha fatto il minivolley si rende benissimo conto di quali difficoltà si incontrino nel tenere e organizzare un gruppo di bambini, trasmettere loro delle conoscenze e far sì che si lavori in modo proficuo. Non sto parlando di un motivatore, ma di competenza nell’insegnare! Ai corsi ho sempre sostenuto che fino a un certo livello (minivolley fino all’under 14) non è necessario avere delle conoscenze tecnico-tattiche incredibili, perché la pallavolo che si deve insegnare in quelle realtà è piuttosto semplice e si deve basare soprattutto sulla bontà della tecnica: si tratta quindi di un numero limitato di conoscenze, le famose “poche cose”, che ci devono essere, e che sono poche solo relativamente alla totalità delle competenze possibili. Ma bisogna saperle trasmettere! Conosco allenatori che lavorano molto bene in quelle categorie, e non sarebbero mai in grado di assumere la guida di una squadra di serie C: ci sono corsi apposta per la specializzazione nel settore giovanile, a testimonianza della specificità di questo tipo di allenatore. Posso anche assicurare che ci sono ex giocatori di buon livello che si sono dimostrati pessimi allenatori del settore giovanile: pur conoscendo la tecnica dal punto di vista pratico, non la sanno insegnare. Naturalmente credo siano tutti d’accordo sul fatto che la cosa migliore sia avere gli allenatori più esperti e competenti a lavorare sul settore giovanile, e qualche volta questo si verifica. In molti casi, però, le società scelgono allenatori giovani per vari motivi (economici, disponibilità in una certa fascia oraria): posso assicurare, per l’esperienza che ho, che quando mi sono trovato a osservare allenamenti gestiti da questi allenatori giovani le incompetenze maggiori non erano quelle tecniche, quanto quelle metodologiche: gruppi organizzati male, pochi palloni toccati, bambini che facevano quello che volevano, idee poco chiare, interventi correttivi inadeguati e così via. Se li interrogavo sulla tecnica, la conoscevano. Mi guardo bene, quindi, dal dire che un buon motivatore è da preferire a un buon tecnico: il confronto è fra un buon insegnante che ha conoscenze elementari (ma solide) di tecnica, e un allenatore che ha competenze tecniche ma non lo sa trasmettere perché è un pessimo insegnante. Io continuo a preferire il primo, che fra l’altro, per la forma mentale che in genere ha chi è bravo ad insegnare, sarà portato ad approfondire sempre più le sue competenze tecnico-tattiche. L’allenatore che non si aggiorna e non si evolve è un allenatore finito.
    La verità è che per fortuna una cosa non esclude per forza l’altra: cerchiamo quindi di approfondire ed evolvere le nostre competenze in tutti i campi, con la consapevolezza che non arriveremo mai ad essere “a posto” in tutto.

  2. Penso che un buon allenatore debba avere un minimo di conoscenza tecnico/tattica e che la sappia insegnare. Le conoscenze tecnico/tattiche minime dipendono secondo me dal livello in cui si allena: ad esempio un allenatore di un under 14/16 dovrebbe avere buone conoscenze tecniche da insegnare ai ragazzi (penso molto più tecniche che tattiche a livello giovanile) mentre ad un allenatore di serie A penso competa molto di più la tattica più che quella tecnica. Insomma, semplificando molto penso che ci sia una correlazione tra livello in cui si allena e proporzioni di conoscenza tecnico/tattiche dove più si va in alto più “contano” quelle tattiche (in quanto i giocatori si presuppongono già formati tecnicamente). Per quanto riguarda il “saper insegnare” è un fattore sicuramente importante: a nulla servirebbe l’allenatore più preparato del mondo se non sapesse trasmettere le sue conoscenze ai giocatori, come non servirebbe un allenatore che nulla sappia di tecnica/tattica ma che sappia trasmettere ciò che sa. Come sempre escludo gli estremi e prediligo una via di mezzo.

  3. Per migliorare tecnicamente ci sono molti libri e dvd,
    ma per migliorare il proprio “saper fare” e “saper far fare” ?
    Quali consigli dare per risolvere i sensibili problemi elencati da Sergio?
    1-gruppi organizzati male: file, rotazioni, posizione in campo, troppo tempo fermi…
    2-pochi palloni toccati: numero di ripetizioni, tempo esecuzione effettivo dell’esercizio…
    3-bambini che facevano quello che volevano: correggere comportamenti troppo estroversi, poco educati, essere autorevoli, motivare gli atleti, costruzione di come si deve stare in palestra ad allenarsi (impegno, imparare a far fatica…). Questi problemi possono insorgere anche per via dei problemi 1 e 2.
    4-interventi correttivi inadeguati: correzione al momento sbagliato o con modalita’ sbagliate, come comunicare con l’atleta…
    Mi aspetto un nuovo post di Andrea 🙂

    P.S: faccio i complimenti per questo blog

  4. Piccola provocazione, avendo anche la fortuna di avere Sergio tra i lettori: le critiche che, GIUSTAMENTE, vengono da voi mosse, sono trattate ai corsi? Al primo grado siamo mandati a vedere un allenamento di B2/B1… bellissimo, ma… lo scopo? Vedere un allenamento di B2/B1 è senza dubbio molto utile dal punto di vista tecnico/metodologico, ma esula probabilmente da molte realtà in cui noi potremo allenare con il primo grado. Ho visionato l’allenamento della Zinella (quando c’era ancora lo Zio, che, per inciso, meriterebbe una statua per gli aiuti che mi dà ogni giorno): niente da dire, tutto molto bello e ben organizzato (dallo Zio non potevo aspettarmi diversamente). Però: 4 carrelli, un milione di palloni, 12 atleti perfettamente distribuiti tra i ruoli, 2 allenatori, tavoli, scotch, 2 campi da gioco di parquet, 2 ore abbondanti, atleti evoluti e motivati. Forse non sono proprio le condizioni che ti ritrovi ad avere nel giovanile. Io, per esempio, alleno in un campo solo, di cemento, con 12-14 palloni al massimo, da solo (a parte qualche volta che mi aiuta qualche amico), con un tavolo che sta su per miracolo, atleti in numero variabile e con non sempre ottimale divisione di ruoli. Ricordando, ultimo ma non ultimo, che nelle giovanili, oltre ad obiettivi di mantenimento per il campionato (ed allenamento in funzione delle gare) c’è anche un importantissimo programma di sviluppo tecnico/fisico/tattico da portare avanti.
    Allora chiedo, questi problemi come si imparano, se non decidendo di fare il viceallenatore ad un BRAVO allenatore (cosa NON SCONTATA!)?

  5. Gli indirizzi che la Federazione fornisce ai docenti dei corsi allenatori non sono molto particolareggiati, e lasciano molto spazio interpretativo al singolo docente, che ha la tendenza a fare riferimento alla propria esperienza di allenatore. Penso che il docente migliore sia quello che riesce a “sintonizzarsi” meglio con la realtà che i partecipanti al corso incontreranno nella loro attività. Da parte mia ho sempre cercato di non riferirmi troppo all’alto livello, e di mettermi nei panni di chi deve allenare un campionato provinciale o giovanile, però è anche vero che bisogna pure dare un’idea di come sia la pallavolo al di fuori del “cortile”.
    Ci sono diversi punti dei programmi dei corsi su cui avrei da ridire, fra l’altro mi piaceva molto di più l’impostazione che Velasco diede ai corsi ormai molti anni fa, con un’organizzazione delle lezioni per categorie giovanili, partendo dal minivolley per passare all’under 14 e via via fino ai campionati seniores; si affrontavano in ogni fascia d’età tutti i fondamentali in parallelo, con le problematiche che venivano risolte gradualmente e progressivamente, un po’ come si fa allenando. In effetti, questa suddivisione assomiglia molto di più al modo di lavorare reale: non credo esistano allenatori convinti che, prima di avere insegnato tutto il palleggio, non si possa passare al bagher…
    Purtroppo l’esperienza l’allenatore se la fa a spese dei propri giocatori. Per questo sarebbe meglio che chi esce dai corsi facesse almeno un anno da secondo allenatore; io lo metterei come obbligo. Il problema è poi a chi si va a fare da secondo…
    Comunque, nessun corso può dare l’esperienza di una stagione agonistica; se proprio uno è costretto a fare il primo allenatore, dovrebbe avere una figura di riferimento, un tutor, che non necessariamente dev’essere della propria Società, al quale riferirsi per chiarire i propri dubbi. Un’altra alternativa è quella di andare a vedere altri allenatori che allenano, però il rischio diventa quello di copiare gli esercizi e non il metodo di lavoro. Personalmente sono contrario agli “eserciziari”, eccetto che per le progressioni didattiche, e per gli esercizi correttivi. Partendo da un obiettivo, ogni allenatore dovrebbe essere in grado di immaginare una situazione allenante, e di elaborare quindi un esercizio adeguato alla propria squadra.

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